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Tutti a parlare di
Tibet nei giorni scorsi. Fino alla nausea. Ma sui mitici cattolici tibetani
nessuno che abbia speso una parola, ci pare, a parte Avvenire con un breve articolo di
Lorenzo Fazzini.
CATTOLICI
SUL TETTO DEL MONDO
Se da una parte crescono le conoscenze
sulla Chiesa cattolica in Cina (stretta da una velata ma anche spietata
persecuzione da parte del regime comunista), poco o nulla si sa del fatto che
nel lontano e remoto Tibet vive una minuscola comunità di cattolici. Nel
piccolo villaggio di 800 abitanti di Yanjing (che significa “salina”, da alcune
vicine miniere di sale), a
Una vicenda particolarissima e curiosamente provvidenziale, quella della
presenza della Chiesa cattolica in Tibet: l’evangelizzazione del Paese più
“alto” del mondo si deve a dei missionari delle Missions Etrangères
de Paris (MEP), glorioso istituto ad gentes fondato
nel Seicento, e dedicatosi prevalentemente all’annuncio in Asia. Orbene, la
fondazione della Missione a Yanjing risale (come racconta l’agenzia
Eglise d’Asie) a due
intrepidi evangelizzatori francesi che giunsero in questa regione provenendo
dall’India, con la speranza di arrivare in Cina. Qui si fermarono, si
stabilirono per qualche tempo e iniziarono il loro lavoro di evangelizzazione.
Che in seguito fu proseguito da alcuni missionari svizzeri – si trattava di Chanoines del Gran San Bernardo, evidentemente abituati
alle “altezze” della missione in montagna – che nel 1856 poterono edificare la
prima chiesa in Tibet. Negli anni seguenti l’intero villaggio di Yanjing aderì
al cattolicesimo: la vita della comunità era fiorente, come testimoniano i libri
sacri tradotti dal latino in lingua tibetana e risalenti
a quell’epoca, ancora oggi conservati nella chiesa del villaggio.
Ma la pratica religiosa dei cattolici di Yanjing – Yerkalo,
in lingua tibetana, mentre la precedente dizione è in cinese – non ha avuto un
corso facile o tranquillo: è stata bagnata dal sangue del martirio e dalla
violenza, ed anche è sopravvissuta alla chiusura totale verso le religioni
operata dal regime ateo di Mao. Infatti, pochi anni dopo l’erezione della
chiesa, alcuni lama tibetani uccisero il missionario
francese Padre Etienne-Jules Dubernard, dei MEP, e ne affissero la testa
decapitata fuori dalla porta del loro monastero, in segno di disprezzo verso la
presenza cattolica.
La morte dell’intrepido sacerdote transalpino non fu l’unico tributo di sangue
che i cattolici del Tibet pagarono alla loro fedeltà cristiana: infatti, in
seguito a quell’uccisione le autorità cinesi (a quel tempo vigeva ancora il
sistema imperiale) punirono i responsabili tibetani abbattendo alcuni templi
buddhisti. Ma dei monaci decisero di vendicarsi e ingiunsero ad alcune famiglie
cattoliche di Yanjing di rinunciare alla loro fede. Queste non abiurarono ma
diedero testimonianza fino alla morte del loro credo cristiano: diversi
cristiani furono uccisi in un luogo chiamato “campo di sangue”, così conosciuto
ancora oggi. E ancora nel 1949 un missionario fu messo a morte.Era
il Padre svizzero Maurice Tornay, fondatore di un monastero nella regione dello Yunnan: per un po’ di tempo fu lui responsabile della comunità
di Yanjing, ma dovette subire le angherie dei religiosi buddisti del locale
monastero di Ganda, che esercitavano una sorta di dittatura politica, senza
lasciare spazio ad altre religioni. Quando nel 1949 si stava recando nella
capitale Lhasa per protestare contro questa situazione, cadde in un’imboscata e
fu ucciso.
Oggi di certo la situazione nel piccolo borgo himalayano è diversa: come
racconta un inviato dell’associazione Aiuto alla Chiesa che soffre francese,
che di recente è stata nel villaggio, i rapporti tra buddhisti e cattolici sono
buoni, frequenti i matrimoni misti, mentre tra i figli e nelle famiglie
convivono appartenenti sia all’una che all’altra religione. Tanto che quando –
dopo quasi 50 anni di assenza – a Yanjing è tornato un prete cattolico, i
monaci buddhisti di Guanda hanno chiesto scusa ai cattolici locali.
Anche la vicenda degli ultimi decenni dei cattolici di Yanjing ha
dell’incredibile: infatti, con il 1949 e l’annessione del Tibet da parte della
Cina comunista, più nessun sacerdote poté assistere la comunità del villaggio a
strapiombo sul Mekong, il celebre fiume che, partendo dall’Himalaya, sfocia
nell’Oceano Indiano. Solo con il 1996 un nuovo
sacerdote arrivò a Yanjing: era Padre Lawrence Lu Rendi, che oggi ha 34 anni,
il primo prete cattolico tibetano dopo decenni. Dal 1998 Padre Lu serve il
villaggio e i circa 3 mila cattolici del Tibet, disseminati in 10 centri, dove
però non ci sono chiese, ma le riunioni e le celebrazioni eucaristiche
avvengono nelle case degli stessi fedeli. A Yanjing Padre Lu ha ricostruito la
chiesa parrocchiale, essa stessa emblematico simbolo della fortezza della fede
dei cattolici del Tibet: costruita appunto dai missionari svizzeri
nell’Ottocento, fu confiscata durante la Rivoluzione culturale maoista e
trasformata in scuola. Solo nel 1982, con la stagione di maggiori aperture da
parte del governo di Pechino, i cattolici tibetani poterono riprendere il corso
di una pratica non più osteggiata dal regime: di tanto in tanto un anziano
sacerdote cinese, che conosceva la lingua locale, veniva a Yanjing per
celebrare la Messa. Nel 1986 poi la chiesa poté riprendere il suo uso normale.
Nel 1999 un violento terremoto la danneggiò gravemente: il governo ne permise
la ricostruzione solo in argilla, ma Padre Lu si batté
per ristabilire in pienezza l’edificio sacro.
Ora l’opera del giovane ma deciso sacerdote (lui stesso originario di Yanjing)
sta per arrivare a completamento: la chiesa è stata ricostruita secondo uno
stile tibetano, ma mancano fondi per finire i lavori. Intanto però Padre Lu –
come ha raccontato di recente l’agenzia AsiaNews – è
stato affiancato da un altro sacerdote sempre originario del Tibet, Padre Ding Yaohua, e l’opera di
assistenza pastorale ai cattolici tibetani prosegue, con corsi di catechesi e
la preparazione ai sacramenti. E una particolarità: gli stessi cattolici,
ciascuno in proprio, coltivano un po’ di quell’uva sconosciuta in questo lembo
di mondo, a suo tempo introdotta dai missionari francesi,
usata poi per il vino da Messa. Un segno concreto di come i cristiani del Tibet
sentano davvero “loro” la fede cattolica.
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