Il Dalai si rifiuta di condannare l'uso della violenza.

 

Il Dalai Lama non è un uomo di pace. Il Lamaismo non è contro la violenza. Il Lamaismo è a favore della violenza.

Il Lamaismo (o buddismo tibetano), secondo la filosofia della corrente buddista Mahayana dal quale discende, ammette, consente e fa regolarmente ricorso alla violenza quale strumento per il raggiungimento di "scopi superiori". E' ciò che loro (i lamaisti) definiscono "violenza compassionevole": un ossimoro, per indicare che qualsiasi atto di violenza può essere lecito se compiuto per finalità eccellenti.

Se il Dalai è a favore della violenza, non è un impostore, come molti erroneamente ritengono. Siamo noi occidentali - plagiati dalla propaganda sin dagli anni '60 - che lo riteniamo indebitamente uomo di pace e di non violenza.

Ogni volta che il Dalai si trova in circostanze nelle quali dovrebbe pronunciarsi contro la violenza in modo categorico, non lo fa, non lo fa mai. Svicola sempre, e talvolta dà persino risposte che a noi appaiono scioccanti, ma che sono in assoluta coerenza con il suo particolare credo. Basti ricordare che è a favore dell'aborto, dell'eutanasia, della fornicazione, dell'omicidio "a fin di bene", quindi a favore della pena di morte. E' a favore della caccia, che pratica egli stesso, anche se spara "solo" agli uccellini col suo fucilino ad aria compressa. E' carnivoro, quando il buddismo è pressoché universalmente ritenuto sinonimo di vegetarianesimo: la sua passione è la carne di vitello.

Si pensi alla setta giapponese "Aum Shinrikyo", quella che nel 1995 compì la strage al gas nervino nella metropolitana di Tokyo. Ebbene, questa setta è parimenti "buddista" e la sua filosofia, inventata di sana pianta da Shoko Asahara (suo capo e fondatore, il santone cieco oggi in carcere in Giappone in attesa di essere giustiziato per i crimini commessi) attinse a piene mani dal buddismo tibetano, tant'è che il Dalai ed il suo entourage ne sponsorizzarono l'attività a gran voce, arrivando a scrivere accorate lettere di raccomandazione al governo giapponese, per far sì che la setta di Asahara ottenesse il riconoscimento formale di associazione religiosa, in modo da essere esentata dal pagamento delle tasse.

Il Dalai non ha mai detto di essere contro la violenza in modo assoluto. Ogni volta che sembra stia per dirlo, ecco comparire subito un "a meno che". Nelle sue azioni, dirette od indirette, ne ha spesso fatto uso e, coerentemente, non ha mai preso pubblica posizione di condanna contro di essa.

Attenzione, però: il Dalai, non condannando la violenza e avallandone l'uso come mezzo, non si comporta affatto da impostore, perché questo è assolutamente coerente con i suoi princìpi filosofici.

Siamo noi occidentali che l'abbiamo elevato ad icona del pacifismo. Lo crediamo perché la propaganda della guerra fredda, che si perpetua tutt'oggi, ce l'ha fatto sempre credere e deve continuare a farcelo credere.

Quando, finalmente, riusciremo ad assimilare questo concetto: il lamaismo (o buddismo tibetano), in quanto discendente dal buddismo Mahayana, fa uso della violenza come sistema, come mezzo per il raggiungimento di scopi cosiddetti "superiori", tutto ci apparirà finalmente chiaro. Non ci scandalizzeremo più dei discorsi strampalati (che invece sono assolutamente coerenti) del Dalai e lo relegheremo al ruolo che effettivamente gli compete, cioè quello di un monarca teocratico ed assoluto, intollerante, reazionario e violento, che sta semplicemente lottando con ogni mezzo per riprendersi il potere e, con esso, i privilegi dei quali è stato privato.

Il Dalai non è un uomo di pace. Il Dalai non è una guida spirituale. Il Dalai è un principe sovrano, un re, un uomo-dio, un capo politico e si comporta come tale. Impariamo a leggerlo per quello che è.